di Elena Codeluppi
La Giornata Internazionale contro le discriminazioni omo-lesbo-bi-transfobiche è appena trascorsa e ci siamo chiestƏ quale sia la situazione negli ambienti lavorativi in Italia e come possiamo creare situazioni più inclusive attraverso il linguaggio.
Per comprendere meglio la questione partiamo dalla definizione di “situazione discriminatoria”: una condotta del datore di lavoro può essere considerata tale quando, a causa dell’orientamento sessuale, si fa applicazione di regole differenti a situazioni comparabili, oppure applicazione di regole identiche in situazioni diverse.
Possiamo classificare la discriminazione in tre tipologie:
- diretta: sulla base del suo orientamento sessuale una persona è trattata meno favorevolmente rispetto a un’altra in una situazione simile
- indiretta:una disposizione, un criterio o una prassi – apparentemente neutri – mettono in posizione di particolare svantaggio le persone LGBTI per la sola ragione del loro orientamento sessuale
- “molestie”:comportamenti indesiderati sul luogo di lavoro, con lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona sulla base del suo orientamento sessuale e di creare un clima ostile o addirittura intimidatorio, offensivo o umiliante.
Esistono però ingiustizie che discriminano ma che non trovano tutela nelle speciali norme del nostro ordinamento, come ad esempio quelle tra colleghi che eventualmente rientrano nella categoria “mobbing”.
L’ambiente di lavoro è considerato ancora non sicuro
Secondo le rilevazione Istat e Una per il 2020- 2021 sono oltre 20 mila, pari al 95,2% del totale, le persone in unione civile o già in unione che vivono in Italia e dichiarano un orientamento omosessuale o bisessuale.
Tra quanti dichiarano un orientamento omosessuale o bisessuale e sono occupate o ex-occupate, il 26% dichiara che il proprio orientamento ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati. In particolare per quanto riguarda: carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione.
Secondo la ricerca “Io sono, io lavoro” del 2017, a parità di lavoro, gli uomini omosessuali guadagnano dal 10% al 32% in meno dei loro colleghi eterosessuali; nella maggior parte dei casi l’ingiustizia subita resta non denunciata né segnalata, con la conseguente mancanza di dati statistici e di informazioni tecniche sul fenomeno.
La ricerca Istat riporta che 40,3% riferisce, in relazione all’attuale o ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale. La paura di essere discriminati porta una persona su cinque a evitare di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento sessuale.
Circa sei persone su dieci hanno sperimentato almeno una micro-aggressione come brevi interscambi ripetuti che inviano messaggi denigratori ad alcuni individui in quanto facenti parte di un gruppo, insulti sottili diretti alle persone spesso in modo automatico o inconscio. La più diffusa è “aver sentito qualcuno definire una persona come frocio o usare in modo dispregiativo le espressioni lesbica, è da gay o simili”.
Relativamente alle discriminazioni subite e ascrivibili a una pluralità di caratteristiche (es. origini straniere, condizione di salute, convinzioni religiose o idee politiche, genere, orientamento sessuale etc.), una persona su tre, tra le persone omosessuali e bisessuali in unione civile o già in unione che vivono in Italia, dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione mentre cercava lavoro.
Le microagressioni: cosa sono e come evitarle
Il fenomeno delle “microaggressioni” è stato per la prima volta studiato negli anni ’70 da Pierce e ripreso in tempi più recenti da diversƏ studiosƏ in riferimento alle minoranze etniche. Nel corso dell’ultimo decennio, questo termine è stato riadattato dalla comunità scientifica in riferimento alle persone LGBTQIA+ e riferendosi a brevi e comuni diseguaglianze quotidiane sul piano verbale, comportamentale o ambientale, intenzionali o meno, che veicolano insulti ostili, dispregiativi o negativi alla persona o al gruppo target.
Esistono tre livelli di microaggressioni:
- microattacchi: attacchi verbali o non verbali volti a ferire la vittima designata attraverso epiteti, insulti, comportamenti evitanti o azioni discriminatorie intenzionali: per esempio, chiamare una persona LGBT+ “froc*o”, “checca”, “travestitə” oppure dire a una persona LGBT+ che è malata in ragione del suo orientamento sessuale, della sua identità di genere o della sua espressione di genere.
- microinsulti: atti di comunicazione verbale e non verbale che, in modo subdolo, trasmettono scortesia e mancanza di tatto, umiliando e sminuendo l’identità o l’appartenenza della persona.
- microinvalidazioni: atti comunicativi che negano o annullano i pensieri psicologici, i sentimenti o la realtà esperienziale del gruppo emarginato o dell’individuo: affermare che si è tuttə esseri umani, specialmente in determinate situazioni, può risultare molto impattante e contribuire a rendere invisibile la realtà di una persona o di un gruppo di persone.
Sebbene le microaggressioni possano sembrare innocue, il sommarsi di diverse esperienze negative nella quotidianità di una persona LGBTQIA+ può portare a un forte stress psicologico. Per tale motivo, è importante considerare non solo la terminologia utilizzata, ma anche gli impliciti che certi atti comunicativi possono portare con sé nell’incontro con l’altro.
Linguaggio inclusivo sul posto di lavoro
Molte aziende ora implementano strategie per garantire che le politiche, i benefit e la cultura in generale del posto di lavoro siano inclusivi nei confronti dei dipendenti LGBTQ. Abbiamo individuato tre consigli da poter applicare per creare un ambiente rispettoso:
- Superare il binarismo uomo-donna
Molte persone utilizzano termini di genere (es. parlando solo al maschile) senza l’intenzione di nuocere, ma potenziando un binarismo di genere (maschile e femminile). Risulta quindi importante ripensare alle locuzioni di genere comunemente utilizzate e adattarle utilizzando un linguaggio più inclusivo e neutrale rispetto al genere.
2. Pronomi
L’uso del nome e dei pronomi corretti di un individuo è un modo importante per dimostrare rispetto nei confronti dei dipendenti e delle dipendenti trans e non binari sul posto di lavoro. Ad esempio: potete includere i pronomi nelle firme delle e-mail; introdurre i pronomi in anticipo, per esempio nelle riunioni di lavoro; quando si presentano i nuovi dipendenti, includere il proprio nome e pronome: “Ciao, sono Elena! I miei pronomi sono quelli femminili. BenvenutƏ nella squadra!”.
3. Mostrare rispetto
Ci sono molti modi in cui le aziende e lə dipendenti stessə possono assicurarsi di trattare le persone trans e non binarie con il rispetto che meritano. Alcuni esempi potrebbero essere:
- Non fare supposizioni sull’identità di genere e mantenendo una mentalità aperta e curiosa: le esperienze non binarie non sono universali.
- Riconoscere gli errori. Chiedere scusa e correggersi quando si utilizza il pronome sbagliato è molto più importante che non sbagliare mai.
- Non chiedere informazioni sullo stato di salute (questo include ormoni, interventi chirurgici, ecc.): non sono argomenti pertinenti sul posto di lavoro.
- Continuare a fornire formazione ai dipendenti in merito alle questioni LGBTQ e istituire manager di politiche e pratiche di genere inclusive.
- È importante rispettare il fatto che la comprensione della propria identità di genere può essere un processo. Per questo motivo, gli individui trans*/non binari/ gender non conforming possono arrivare a rendersi conto che un nome o un insieme di pronomi diversi è più in linea con la loro identità di genere, modificandoli pian piano nel tempo.
Il cambiamento parte da ognuno di noi, ma se preso collettivamente può essere davvero molto più efficace.